Il viso assorto di questa giovane Madonna, reso turgido e levigato da un chiaroscuro attento, che non incontra soste o segni d’espressione, mostra la fronte parzialmente coperta da un sottile velo, insolitamente increspato, che trova rincalzo in cima al capo, dove il panneggio si inspessisce per ridiscendere fin sopra le spalle. Nelle altre composizioni del Salvi i tessuti presentano onde lente e pieghe corpose, simili a quelle che nell’opera ritroviamo sul busto, nella veste rosata e nel manto azzurro, ma l’inconsueto disegno del velo è un lascito del modello d’ispirazione, che già il Voss identificò nella Vergine della pera di Albrecht Dürer. L’originale dell’artista tedesco si conserva a Vienna, presso il Kunsthistorisches Museum e ha misure analoghe alla nostra tela (49 x 37 cm), ma il Sassoferrato non dovette avere a disposizione che una calcografia cartacea o, al massimo, una derivazione pittorica. Di quella citazione nordica resta quasi unicamente il disegno arricciato del copricapo e la discesa scalena della garza sulla guancia destra della Vergine. Mentre le espressioni enfatiche del viso “germanico”, l’inarcarsi delle sopracciglia, della bocca e della narice, che precocemente anticipano gli stilemi del manierismo internazionale, vennero ricondotte dal pittore marchigiano entro registri di sobrietà e purezza. Sotto il volto della Madonna anche il resto dell’invenzione subì una trasformazione, Giovanni Battista fece sparire il gesticolante Gesù Bambino e al suo posto vi pose due mani giunte, delicate e tornite. Di quel prototipo sopravvive l’inafferrabile sguardo ribassato, che si appoggia solo sui propri pensieri. Il pennello del Salvi si incaricò poi di armonizzare ogni superficie, togliendo i dettagli più filiformi a favore di una levigatura morbida, accostante. Questa iconografia, diffusamente replicata, rimane tuttavia un caso particolare nella produzione dell’artista marchigiano e si giustifica quale preciso omaggio al grande artista, riconosciuto come il Raffaello tedesco. Questa versione della Mater amabilis giunse al monastero di Santa Chiara con un gruppo di altre opere dell’artista per deposito degli eredi del Salvi e solo assieme a un pregevole esemplare di Mater dolorosa, riuscirono a scampare alla dispersione del 1906, venendo donate alle clarisse di Sassoferrato. Le altre tele subirono invece una alienazione in quella data, dopo essere passate dal Palazzo Municipale nel 1835. Resta da dire che di questa icona, reinventata dal Sassoferrato, molte sono le redazioni autografe e innumerevoli le derivazioni di bottega e di seguaci. La mostra del 1990 ne diede testimonianza attraverso l’esemplare conservato al Prado di Madrid e la variante del Museo di Belle Arti di Budapest che include anche il Gesù Bambino.
Massimo Pulini dal catalogo Il Sassoferrato – La Devota Bellezza