Lorenzo Bellomo, Madonna della Mercede, 1706, Chiesa della Madonna della Mercede, parete sinistra
Committente: don Antonino Pantano parroco della Chiesa Madre S. Giovanni Battista
Alla Madonna della Mercede è dedicata la chiesetta omonima, ubicata ai piedi del celeberrimo Castello rupestre, nella piazzetta racchiusa tra l’imponente rocca turrita e la cortina di case antiche allineate all’abside ed al piccolo campanile. La piccola chiesa (prima metà del Settecento), a navata unica, conserva, fra l’altro, un pregevole, intenso ed espressivo Crocifisso ligneo tardo-cinquecentesco, proveniente dalla cappella castrense. Ma costituisce soprattutto un raccolto e intimo “santuario” dedicato alla Madonna della Mercede. Vi sono custodite, infatti, ben tre opere che la raffigurano: il quadro (1706) di Lorenzo Bellomo, che ne rappresenta l’iconologia originaria; la Madonna delle Grazie (nicchia a destra), simulacro ligneo, che, in realtà, è l’antica Madonna della Mercede come attesta lo stemma “mercedario” sul suo petto; la “nuova” statua, una Madonna col Bambino, collocata sull’altare maggiore e che ogni anno (ultima domenica di settembre) viene portata in solenne processione per una delle feste religiose più sentite di Sperlinga. Il quadro raffigurante la Madonna della Mercede – quasi certamente proveniente dalla Chiesa madre, dove esisteva una cappella “sotto titolo della nostra Sig.ra della Mercé” – fu dipinto nel 1706 dal sacerdote xibetano Lorenzo Bellomo (notizie 1687 – 1706) su committenza di Antonino Pantano, allora parroco di Sperlinga, anche lui originario di Calascibetta, come attestano le iscrizioni sulle pagine semiparte del libro raffigurato ai piedi della Madonna e dei due santi: “FACTU(M) FUIT ANNO D(OMI)NI\1706\”; “SAC. D. LAURENTIUS\ BELLOMO PINGEBAT CALAXIB[…]; “D. A […] \ PANTANO CALAX[…]\ […] PAROCHUS \[…]FIERI FE\ CIT\”. Rappresenta la Madonna rivestita d’un ampio mantello in atto di essere incoronata da un etereo Dio Padre avvolto in una svolazzante veste rosso-bruna, mentre due graziosi angioletti tengono sollevati i lembi del velo e del manto – bianco all’esterno, azzurro all’interno (i ricorrenti colori mariani), fermato sul petto da un fermaglio – sotto il quale sono inginocchiati due Santi. Sono i due fondatori della congregazione dei Mercedari: a destra, San Pietro Nolasco (circa 1180 – 1245: festa il 6 maggio), reggente il vessillo della nuova congregazione; a sinistra, San Raimondo da Peñafort (ivi 1175 – Barcellona 1275), riconoscibile anche per il cappello cardinalizio deposto ai suoi piedi perché carica da lui rifiutata. Questi due religiosi, il 10 agosto 1218, nella chiesa di Santa Croce a Barcellona (Spagna), fondarono l’ordine religioso dei Mercedari, così detto perché intitolato alla Beata Vergine della Mercede, per il riscatto (“mercede”) e la redenzione morale dei cristiani rapiti e fatti prigionieri dai Mori. Lo stemma – che figura sul petto della Madonna come fermaglio, sullo stendardo di San Pietro Nolasco e sulla cappa di San Raimondo – ricorda le origini spagnole della congregazione: la croce è, infatti, quella della cattedrale di Barcellona, le quattro barre catalane in campo oro sono le insegne araldiche di Giacomo I re d’Aragona, che favorì la formazione del nuovo ordine. L’abito bianco della Madonna e dei due Santi è quello mercedario, denominato “abito di S. Maria” in riferimento ad una visione di San Pietro Nolasco, cui la Madonna (secondo la tradizione) era apparsa nella notte del 1° ottobre 1218 in abiti candidissimi: da qui l’obbligo dell’abito bianco imposto dalle varie Costituzioni dell’ordine, tuttora esistente, e dagli Statuti delle due confraternite (maschile e femminile) di Sperlinga. La Madonna – che accoglie sotto il manto i santi fondatori – richiama chiaramente l’iconografia della Madonna della Misericordia o del Mantello, che risale al XIII secolo e che raggiunge la sua fioritura nei due secoli successivi, soprattutto come emblema delle confraternite. La “scena” centrale del quadro – illuminata da tonalità chiare e luminose, un po’ statica, ma movimentata nei due registri estremi (in alto: Dio Padre e i due angioletti; in basso: il cappello cardinalizio e le pagine svolazzanti del libro rosso con le iscrizioni) – è dominata dalle figure della Madonna e dei due santi. La Vergine – dall’espressione delicata e soave, soffusa di grazia e compassionevole dolcezza – è caratterizzata da un accentuato verticalismo, che si esprime nel modulo del corpo allungato, nelle braccia e nelle mani affusolate, reminiscenza delle Madonne di Filippo Paladini (1544-1614), il famoso pittore manierista attivo anche a Calascibetta (1610) ed Enna (1612-13), opere che lo xibetano Bellomo avrà sicuramente visto. Lorenzo Bellomo, sacerdote e pittore di Calascibetta, allo stato attuale è quasi assente dai repertori d’arte. Fu attivo nella sua cittadina e in alcuni centri vicini. Oltre alla tela sperlinghese (firmata e datata), gli sono documentate due ante d’armadio con le figure del Salvator Mundi e della Vergine (dipinte per la chiesa madre di Calascibetta) e attribuite altre tavolette, tutte conservate oggi nel Museo diocesano di Caltanissetta. Le poche opere finora conosciute “risentono di un gusto attardato” di ascendenza cinquecentesca, come afferma Santina Grasso.
Nino Contino