La tela, delle dimensioni di circa 175 x 135 cm, mostra il santo martirizzato mediante scorticamento. Bartolomeo era uno dei Dodici Discepoli scelti da Gesù all’inizio della sua predicazione, ricordato nel Vangelo di Giovanni con il nome ebraico di Natanaele. La narrazione agiografica tramanda che egli evangelizzò alcune regioni del vicino Oriente; in particolare predicò in Armenia dove riuscì a convertire alla fede cristiana il re Polimnio assieme a sua moglie e a molti suoi sudditi. Ciò fece insorgere i sacerdoti delle divinità locali i quali, furiosi, fecero abdicare il sovrano a favore del fratello Astiage; questi, convinto dai sacerdoti, accusò Bartolomeo di aver corrotto Polimnio e di aver causato la distruzione dei loro idoli, e perciò ordinò di catturarlo. Mentre l’apostolo veniva condotto alla presenza di Astiage per essere giudicato, al suo passaggio la statua del dio Baldach cadde per terra frantumandosi. Allora il re, ancor più adirato, fece bastonare Bartolomeo e lo condannò al supplizio, mediante scorticamento e decapitazione. L’esecuzione avvenne presumibilmente ad Albanopolis intorno al 68 d.C. Nella produzione artistica il martire Bartolomeo è raffigurato in due modi diversi: a figura singola, con in mano la sua stessa pelle o una lama di coltello, oppure legato ad un tronco d’albero con accanto il carnefice mentre lo scuoia e, di scorcio, alcuni uomini del re. All’origine del dipinto locorotondese vi è una stampa del 1624 raffigurante il Martirio di san Bartolomeo del pittore e incisore Jusepe de Ribera (1591-1652), noto come lo Spagnoletto per via delle sue origini e della bassa statura, operante in Italia (Parma, Roma, e soprattutto Napoli). Ribera, riprendendo la pittura naturalistica e chiaroscurale del Caravaggio, divenne noto per aver caratterizzato una parte della sua produzione, sia pittorica che grafica, con l’uso di toni descrittivi ancor più crudi e brutali, tanto da dar vita ad una vera e propria corrente nota come «tenebrismo», e per essersi tanto interessato alla descrizione di supplizi, volti tormentati ed urlanti, prevalentemente su corpi di uomini vecchi decrepiti e aggrinziti. Egli si occupò più volte dello scorticamento di San Bartolomeo dipingendo lo stesso soggetto con alcune varianti nella composizione della scena. Ricordiamo quello dipinto a Roma intorno al 1616, ora alla Galleria Pallavicini, e quello dipinto poco prima del 1620 a Napoli, ora conservato nella collegiata di Osuna presso Siviglia. La stampa prima citata, un’acquaforte del 1624 ora al British Museum di Londra, venne realizzata dal Ribera e dedicata al Principe Filiberto Emanuele di Savoia, viceré di Sicilia; essa può essere considerata una interessante rielaborazione della composizione del dipinto napoletano del 1620. Di questa incisione ci sono giunti due disegni preparatori (che ovviamente, come la matrice di stampa, sono immagini invertite): un bozzetto a penna conservato al British Museum di Londra, e un dettagliato disegno a matita sanguigna, ora in una collezione privata a Madrid. Come consuetudine le elaborazioni grafiche dei maestri venivano replicate da allievi e copisti dando vita ad altri disegni ed altre stampe, consentendo così una divulgazione capillare di soggetti da dipingere. In questa versione iconografica il santo è ritratto in età avanzata, legato con le braccia rivolte verso l’alto ad un albero e con il resto del corpo cadente sulle ginocchia; il carnefice corpulento compie il suo gesto con disinvolta maestria, mentre un giovane aiutante, intento ad affilare le lame del supplizio, fa capolino da un lato della scena con uno sguardo beffardo. Detta composizione, dalla quale deriva la copia locorotondese del Martirio di San Bartolomeo, risulta riprodotta in parecchi esemplari sia nella versione diritta che rovescia, ritrovabili un po’ dovunque, su tela, ad affresco, su lastra di rame e, finanche, sul disegno di un «santino» devozionale; da una prima sommaria ricognizione, in Puglia si segnala la tela omonima della chiesa di San Sebastiano e delle Anime del Purgatorio a Brindisi, ed un’altra, forse, ritrovata tra le opere d’arte confiscate qualche anno fa a Molfetta. La copia su tela conservata a Locorotondo riveste un certo interesse storico artistico, ma mostra alcuni limiti nella capacità di riprodurre il modello originario della stampa del 1624: il Santo ha il disegno della muscolatura quasi stilizzato e privo di tensione; il suo volto impassibile e perso non ha emotività, non ha gli occhi rivolti al cielo e non ha bocca aperta come a proferire qualcosa; nel dettaglio del braccio sinistro scuoiato c’è un’interpretazione forse esageratamente didascalica del sangue che stilla dalla carne viva; gli elementi descrittivi dell’albero, del sasso sotto il ginocchio, del paesaggio sullo sfondo sono semplificati o aggiunti, come il caso dello scorcio di città in lontananza e, in basso, non vi è la testa della statua del dio Baldach; le figure in retroscena sono state sostituite da un unico personaggio, alto e compresso sul bordo destro del quadro, con mantello e copricapo rivestiti di pelliccia maculata, con il simbolo islamico della mezzaluna sulla testa, forse ad indicare genericamente il persecutore di un’altra fede religiosa che, ovviamente, non poteva essere un musulmano in quanto storicamente ancora di là da venire all’epoca della morte del santo apostolo. Anche il ragazzo in disparte è riprodotto in volto senza il riso provocatorio dell’originale, e la conformazione del suo abbigliamento non è molto chiara: sembra che il suo camicione abbia un colletto in basso ed un altro più in su stretto sotto la testa; confrontando questo dettaglio con il modello originario si è appurato che il presunto colletto basso altro non è che un tipo di finitura della manica all’attacco della spalla, segno di una imprecisa interpretazione da parte del pittore replicante. Al momento non è stato possibile formulare ipotesi circa l’identità di questo autore né la data dell’esecuzione.